Generazione AVATAR

L’attesa è valsa la spesa prima,
e forse l’impresa dopo. Non è un gioco di parole, come il più classico degli
scioglilingua, ma la frase che avrei voluto sospirare, se solo non fossi stato
in compagnia, dopo aver visto il colossal Avatar.

Non starò qui a recensire il
film, anche perché non ne sarei capace. Nel complesso la mia valutazione sulla
messa in scena, sulla regia, effetti speciali e quant’altro è sicuramente
positiva, di sicuro gradimento. Ahimè anche le realtà più complesse e virtuali
a volte non riescono a rendere meno prevedibili le trame, ma questa è un’altra
storia.

Più volte sulle righe di questo
nostro piccolo giornale, abbiamo parlato della “personalità” virtuale, volendo
indicare con tale termine quell’insieme di comportamenti che denotano una
persona dietro un muro virtuale.

Non è necessario muoversi in
ambienti come Second Life, per poter scoprire il proprio Mister Hyde
cibernetico. Il tempo sempre maggiore che dedichiamo, ormai non solo noi
giovani, alla rete e alla “manutenzione” dei rapporti che essa comprende, fanno
di noi sicuramente delle persone accomunabili a quegli avatar blu che si vedono
nella pellicola firmata da James Cameron.

Costruirsi un altro mondo è
sempre stata prerogativa dell’uomo. Il piano dell’immaginazione però oggi trova
forma concreta in piattaforme, camere, ambienti costruiti da altri: enormi
contenitori in cui ci denotiamo come vogliamo, decidiamo il lato da mostrare,
camuffiamo il nostro ruolo. Quest’ultima frase credo meriti una precisazione.
Nel mondo virtuale non esistono più i ruoli che l’età e la comunità affidano a
ciascun individuo nella realtà. E’ come se le diverse età anagrafiche siano
compresse in un unico spazio temporale, con un conseguente appiattimento
generale che pone tutti sullo stesso piano.

Detto così sembrerebbe una delle
forme più democratiche di espressione, priva di quei filtri comportamentali che
spesso le diverse età pongono nei rapporti. Questa sorta di democrazia dei rapporti, in realtà crea
enormi disfunzioni nell’atteggiamento di chi nella vita vera si trova ad assumere
un ruolo, magari di educatore, e con il suo avatar si diverte a ricoprire, o
meglio riscoprire, quello dell’educando.

Per l’occasione ho rispolverato
una scena che avevo tralasciato da tempo. Mi sono ricordato di quando con i
miei cugini, nei pranzi di famiglia dei giorni festivi, si allestiva il tavolo
per i bambini, perché stessero insieme, mangiassero qualcosa più a loro misura,
avessero l’opportunità di divertirsi un po’, senza arrecare eccessivo disturbo.
Nel pianeta di pixel quel tavolo è unico, sgomitano adolescenti con adulti
dando vita  alla generazione Avatar.

Nella realtà virtuale è probabile
che qualche figlio si vergogni di una frase scritta sul profilo della mamma, o
che una figlia sia meno impaziente di pubblicare le foto della sua cresima, di
quanto non lo sia il padre.

Sarebbe sbagliato pensare che internet
e tutto ciò che comporta sia solo un rischio o che debba essere vietato a certe
persone piuttosto che ad altre. L’avatar è un qualcosa che abbiamo dentro,
qualcosa che forse opprimiamo per non dispiacere qualcuno, ma che
inevitabilmente trova il modo di esprimersi. La rete è solo un catalizzatore di
questo processo, non la causa dello stesso.  E’ come se quella maschera, di pirandelliana
memoria, da opprimente e falsa sia diventata comoda e liberatoria. Da imposta a
scelta. Magari ha sempre lo stesso volto, ma di sicuro il profilo diverso.

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